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Le strategie, di solito, si valutano quando tutto procede così come si era previsto, ma sarebbe ancora più importante misurarle quando le cose non vanno come dovrebbero.
Cosa succede quando un cliente è insoddisfatto di un prodotto o un servizio?
La via più corretta che dovrebbe seguire è quella di rivolgersi direttamente al fornitore o all’intermediario, che – auspicabilmente – è dotato di un ottimo servizio di customer care.
Ma la via corretta non è sempre la più frequentata, e se fino a una decina di anni fa la deviazione più frequente era scrivere a una testata giornalistica, ora c’è una scorciatoia molto più rapida: i social media e i siti di recensioni.
Qui la voce negativa può restare isolata e inascoltata e fare poco danno, oppure amplificarsi fino a far esplodere una bolla di negatività e trasformare un caso da customer care in uno di crisis management.
Dove si colloca una community in tutto questo percorso? Al punto giusto.
La community – come abbiamo potuto verificare nella nostra esperienza con diversi brand – diventa per il cliente un luogo abituale dove confrontarsi con gli altri iscritti e dove ognuno porta abitualmente la propria esperienza di acquisto e di consumo.
Viene così naturale, a chi la frequenta, esprimere in questo luogo protetto, dove si sente compreso e accolto, anche il proprio dissenso per un disservizio.
Spesso accade a quel punto qualcosa di sorprendente: è la community stessa a intervenire consigliando la persona delusa, suggerendo ad esempio il modo corretto di usare un prodotto, o il canale giusto a cui rivolgersi. L’esperienza negativa di un cliente, una volta superata, si trasforma in risorsa per un altro cliente che rivivrà un’esperienza simile, e la bolla si sgonfierà senza nemmeno bisogno – in via teorica – dell’intervento del customer care. Naturalmente una comunicazione da parte del brand resta comunque auspicabile, per dare al cliente la cura e l’attenzione necessarie, ma diventa meno urgente e più semplice da gestire.
Questo meccanismo si avvia in modo spontaneo anche sulle community che si formano sui social, fondamentali da presidiare. La nostra attività per Gardaland comprende ad esempio il monitoraggio delle conversazioni dei gruppi Facebook creati dagli abbonati, da dove possiamo cogliere facilmente i temi più “caldi” e il sentiment diffuso tra i visitatori del Parco, e dove, pur senza la presenza attiva del brand, si genera automaticamente una dinamica di “tutoraggio”, con i più esperti che consigliano e rassicurano i novizi.
In una community proprietaria, dove il brand è parte della conversazione, le possibilità di intervento si moltiplicano. Quello che accade tipicamente all’interno della community di ambassador che abbiamo sviluppato e gestiamo per QVC, quando uno dei membri esprime un parere negativo su un prodotto o un servizio, è la nascita di una discussione che si mantiene quasi sempre su toni pacati e costruttivi. Gli ambassador si aiutano a vicenda e riescono spesso a trovare soluzioni in autonomia. Quando il brand interviene nel forum o comunicando direttamente con il cliente attraverso un messaggio privato, a questa attenzione viene attribuito un valore maggiore di quanto avrebbe al di fuori, proprio perché non è più percepita come necessaria.
La crisis management è insomma uno dei tanti modi in cui una community migliora la loyalty e la relazione con un cliente: gestire le criticità “in casa” è più soddisfacente per un cliente e decisamente vantaggioso per il brand.
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