BLOG/ #FAREMEGLIO
Qual è il souvenir più emozionante del vostro ultimo viaggio?
La calamita che troneggia sulla porta del frigo? Nooo.
La T-shirt trovata in quel curioso mercatino? Non credo.
Quella specialità gastronomica tipica che avete comprato in un negozio del centro? Scommetto di no.
Sono pronta invece a scommettere che il vostro ricordo più bello sia una foto. O forse un intero album, fisico, digitale, privato o condiviso che sia.
In fondo, quello che acquistate, quando investite i vostri risparmi in un viaggio, non è il prodotto che porterete a casa, ma il viaggio stesso.
Ecco: quello che è sempre sembrato ovvio nel marketing turistico, oggi si sta allargando anche agli ambiti più tradizionali del consumo. Lo status symbol da esibire, l’oggetto che ci gratifica, non è più un prodotto, ma un’esperienza, e con essa la sua condivisione.
Mai come oggi vale il motto "Pics or it didn't happen”: mostriamo nei social network le foto delle nostre esperienze come prova, ma anche come prolungamento della gratificazione che ci hanno procurato. È un po’ come la vecchia “visione delle diapositive”, solo con un pubblico molto, molto più ampio (e probabilmente meno annoiato).
Si tratta in parte di una tendenza della quale avevamo già parlato, quella della servitization, in parte di una rivoluzione culturale più profonda, in cui la vera ricchezza non è data dal possesso, ma dall’impiego del nostro tempo in attività che ci rappresentano, ci appagano, ci permettono la condivisione.
Di questa evoluzione devono tenere conto anche i programmi loyalty, che non possono più limitarsi a un catalogo di premi da conquistare a fatica, con spese spesso sproporzionate all’effettivo valore dell’oggetto. In qualche modo, la loyalty dovrebbe muoversi verso l’offerta di esperienze, di tempo di valore tra brand e cliente o, nel caso più auspicabile, diventare esperienza essa stessa. Non a caso molti brand di successo stanno virando il focus del proprio core business fino a far diventare prodotto lo stesso piano loyalty (si pensi al piano a pagamento di Amazon Prime).
È un po’ quello che ha fatto Olojin con SìAmo QVC: l’appartenenza alla community di Ambassadors, parte di una strategia di fidelizzazione al brand, è gratificante non solo per l’offerta di sconti e di promozioni riservate ai suoi membri, ma per il senso di appartenenza che genera.
Le ambassador possono avere un rapporto privilegiato con il marchio, chattare con i presenters, ma anche sviluppare un rapporto di conoscenza e amicizia tra loro.
Il risultato è tangibile: alcune clienti hanno chiesto di restare all’interno della community anche dopo il termine del loro “mandato”: senza più sconti o promozioni a disposizione, si sono fatte ambassadors per il puro piacere di condividere l’esperienza del brand e godere del proprio status di “esperte” dando consigli alle nuove arrivate.
Dobbiamo insomma abituarci a pensare al consumo come un consumo di tempo, prima che di prodotti, e dare a quel tempo il massimo valore possibile, attraverso l’interazione, la personalizzazione, la creazione di un’esperienza unica.
Il posto privilegiato che deve oggi raggiungere un brand, insomma, non è più lo spazio del logo su una maglietta, su un adesivo o su un telefono: è un luogo molto più prezioso, tra le nostre emozioni e la nostra memoria.
Può sembrare tautologico, ma per rafforzare la relazione tra cliente e azienda, la prima cosa da valorizzare è la relazione stessa, il tempo trascorso dal cliente a contatto con il brand, un rapporto che deve essere sempre più interattivo e personalizzato sulle reali esigenze del cliente.
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