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Target: 0-99 anni.
Lo leggevo sulle scatole dei giochi da tavolo, da piccola, e pensavo “Wow, questo sì che è un bel gioco: piace a tutti!”.
Devono pensare qualcosa di simile anche gli addetti comunicazione di molte aziende, che impostano i loro brief sul “vogliamo parlare a tutti”, o quantomeno “non vogliamo escludere nessuno”. Ma quello che vale per il Monopoli non necessariamente è efficace per il marketing.
Se il target “0-99” può essere una buona approssimazione della realtà per alcune imprese (pensiamo ad esempio alle compagnie di telefonia mobile), nella maggior parte dei casi vale la regola aurea che voler parlare a tutti significa non parlare a nessuno.
Cosa significa questo? Naturalmente adattare tono di voce, mezzi e contenuti ai propri interlocutori. Ma parlare a un target specifico può anche significare andare “contro” chi di quel target non fa parte.
In fondo, i gruppi sociali si definiscono per identità ma anche per differenza, e soprattutto nella comunicazione digital e nel regno dei social media nascono vere e proprie fazioni tra sostenitori di idee opposte o semplicemente appartenenti a diverse generazioni o gruppi socialdemografici (mamme/non mamme, vegani/onnivori). Se l’obiettivo di un brand è far sentire il proprio pubblico parte di un gruppo, non si può dimenticare che un gruppo è anche un “noi” che spesso si contrappone a un “loro”.
Sempre più spesso, aziende e vip (in fondo, non sono loro stessi dei brand?) ricorrono a toni di voce e contenuti che identificano chiaramente un confine tra chi è dentro il target e chi è fuori.
James Blunt, precursore di questo uso dei social network, non teme di prendere in giro i suoi detrattori, rispondendo puntualmente a ogni messaggio cattivo nei suoi confronti con altrettanta ironica (e autoironica) cattiveria.
Divulgatori scientifici come Roberto Burioni hanno adottato la policy netta (seppur discutibile) di cancellare i commenti fuori luogo, portatori di “teorie del complotto”, perché rispondere punto per punto a chi contrappone alla scienza delle teorie non verificabili richiederebbe tempo e sforzi non affrontabili, e d’altra parte lasciare visibili commenti antiscientifici significherebbe dar loro visibilità, specialmente nei confronti di chi non ha una formazione adeguata per distinguere teorie attendibili da altre che non lo sono.
C’è chi poi, con una dose di sana cattiveria, ha creato un vero e proprio caso mediatico che ha decretato il successo di un brand.
È il caso di Ceres, un marchio legato a un’idea ludica e goliardica di divertimento, che su Facebook e Twitter spopola con post irriverenti, che prendono in giro vip, fatti di cronaca ma anche manie generazionali (come i quarantenni che usano Facebook in modo un po’ naïf, postando gattini e immagini di “buongiornissimo”).
Possiamo citare anche Motta, che nel suo spot di Natale prende in giro gli ultimi trend alimentari vegan-salutisti.
E non dimentichiamo Enrico Mentana, che non ha paura di arrivare all’insulto (anche coniando neologismi come “webete”) contro chi risponde ai suoi post di opinione con idee qualunquiste o offensive nei suoi confronti. Per celebrare questo suo stile di moderazione è nata addirittura una pagina Facebook, “Enrico Mentana blasta laggente” (oltre 150mila fan!), che riporta le sue risposte più taglienti.
Quali possono essere le conseguenze?
Il brand potrà facilmente diventare antipatico alla categoria di persone che prende in giro o contro cui si pone, ma nella maggior parte dei casi, questo è un falso problema.
Un fanatico salutista non sarà mai un cliente di Motta, così come un razzista che incolpa gli immigrati di qualsiasi problema mondiale non potrà mai essere un serio estimatore di Enrico Mentana.
Al contrario, i brand coraggiosi che non temono di parlare solo al proprio target delimitano un’appartenenza di gruppo che fa sentire il proprio pubblico più partecipe, aumentando la fidelizzazione e uno spirito di vero e proprio “tifo” nei confronti dell’azienda o del VIP.
Spesso, inoltre, una comunicazione più audace guadagna un’eco mediatica gratuita che permette di avere maggiore visibilità e popolarità, creando dei veri e propri culti mediatici attorno al brand.
In fondo, nella rincorsa dei marchi alimentari a voler comunicare di essere “senza olio di palma”, l’unico che si è davvero distinto è Nutella, che ha semplicemente dichiarato di volerlo continuare ad usare.
Naturalmente questo stile comunicativo è adatto soltanto a chi riesce ad identificare con chiarezza un target ben definito, con i suoi gusti e le sue idiosincrasie. Un’analisi che vale la pena fare, comunque, ogni qualvolta se ne presenti l’opportunità.
Magari tra una partita di Monopoli e l’altra.
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