BLOG/ #FAREMEGLIO
Vi ricordate il clamore suscitato dalla chiusura totale di alcune piattaforme social durante la Primavera Araba? Era la fine del 2010 e da allora la censura del web ha colpito duro in tutto il mondo, a partire dai social media.
“Freedom on the net”, l’ultima ricerca condotta da Statista sulla base dei dati di Freedom House, ci restituisce una mappa della censura che offre spunti di riflessione interessanti e un dato ineluttabile: la libertà su internet è in costante diminuzione, da sei anni a questa parte.
Il 67 % degli utilizzatori di Internet vive in paesi in cui la critica del governo, dell’esercito o della famiglia regnante è soggetta a censura e il 27% in paesi in cui persone sono state arrestate per aver pubblicato, condiviso o semplicemente cliccato “like” su contenuti Facebook.
Nel 2016 gli utenti delle piattaforme social sono stati oggetto di sanzioni senza precedenti: in 38 paesi le autorità hanno arrestato dei cittadini sulla base di messaggi condivisi.
I social network sono quindi le prime vittime sacrificali proprio per la loro natura di piazza virtuale e di luogo di dibattito senza confini, dove diffondere informazione e conoscenza. Anche le app di messaggistica istantanea sono nel mirino dei governi: il loro utilizzo viene limitato (e i contenuti intercettati) per arginare eventuali comunicazioni e proteste conto il sistema.
Ma entriamo nel dettaglio delle piattaforme più penalizzate nel 2016. Il prezzo più alto è pagato da Whatsapp, bloccato in 12 paesi. Seguono Facebook con 8 casi di blocco in altrettanti stati e Twitter. Facebook ha invece il triste primato di persone, spesso semplici cittadini, arrestate a causa di post dal contenuto politico, sociale e religioso.
Queste limitazioni penalizzano ulteriormente le minoranze etniche e le comunità emarginate. Ne è un esempio la situazione degli Emirati Arabi: qui la popolazione è costituita per l’88% da lavoratori migranti e da non cittadini, principalmente sfruttati nei lavori di cantieristica e nei servizi, ma il blocco ai social media rende molto difficile per loro cercare sostegno nei loro paesi di origine o tra loro.
In Cina è ormai risaputo che la libertà di espressione sia fortemente a rischio, ma il 2016 è stato un vero e proprio annus horribilis: il presidente Xi Jinping ha inasprito la censura, e le pene per la diffusione di rumors nei social media arrivano anche a sette anni di reclusione.
Anche paesi all’apparenza insospettabili come il Brasile sono scesi notevolmente nel ranking della libertà in rete, libertà che oggi nello stato verde-oro è parziale. Almeno due blogger sono sati uccisi per aver segnalato casi di corruzione e i tribunali hanno imposto blocchi temporanei di Whatsapp, considerato responsabile del fallimento di alcune indagini anti corruzione.
In Turchia la censura continua a crescere dopo il fallito colpo di stato del 2016.
Anche in Russia la situazione è sempre più difficile: dietro ai casi più eclatanti di cyber spionaggio denunciati anche dalla CIA, i blogger, gli attivisti e i semplici cittadini convivono con una perenne spada di damocle, in particolare sul fronte ucraino. Se si pensa che un semplice ingegnere meccanico è stato condannato a due anni di reclusione per aver condiviso su VKontakte (e con soli 12 contatti) una mappa dove la Crimea era parte dell’Ucraina e non della Russia non c’è da stare tranquilli.
In questo scenario a tinte fosche, ci sono però molti bagliori di luce, che dimostrano come Internet e i social network rimangano uno strumento chiave nella lotta per i diritti umani, per una migliore governance e la trasparenza. In più di due terzi dei paesi oggetto della ricerca, l'attivismo basato su Internet ha portato a risultati tangibili: dall’abolizione di proposte legislative alle petizioni, fino alla creazione di movimenti di cittadini contro gli abusi di governo.
Qualche esempio? Un gruppo WhatsApp in Siria ha contribuito a salvare vite innocenti avvisando i civili sugli imminenti raid aerei. In Kyrgyzstan una massiccia protesta dei cittadini iniziata su Twitter ha portato il governo a rinunciare ad alcune spese superflue. In Argentina, il tasso allarmante di femminicidi ha generato una campagna sui social che ha portato migliaia di manifestanti nelle strade delle principali città.
Questa casistica, fortunatamente, potrebbe continuare a lungo, con molti altri esempi provenienti da tutto il mondo. Il lato buono dei social e della rete quindi esiste, ma spesso fa meno notizia del loro uso distorto e inappropriato.
Fonti: Freedomhouse.org e socialmedialife.it
LEGGI ANCHE