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“Buongiorno, Ceres!”, “No, Selvaggia Lucarelli, non sono d’accordo!”
Frasi che solo 10 anni fa avrebbero instaurato dubbi sulla sanità mentale di chi le pronunciava, oggi sono realtà quotidiana. Ai brand si parla come fossero persone, ai VIP si può rispondere come se fossero ospiti nel salotto di casa nostra.
Il “duepuntozero” è talmente consolidato nella nostra realtà che nemmeno ci ricordiamo da dove era partito. Prima, la comunicazione seguiva una sola via. Si leggeva un giornale, si guardava una trasmissione, si cercava un’informazione su un sito web.
Poi furono i blog, quelli con i commenti aperti al pubblico, e infine i social network, che hanno dato nuovi spazi e nuovi canali di contatto a chiunque possa accedere a un computer o a uno smartphone. Chissà se Warhol avrebbe immaginato che oltre ai 15 minuti di celebrità, nel futuro avremmo avuto tutti 24 ore al giorno di diritto di replica.
Oggi, negli Stati Uniti (ma possiamo ipotizzare numeri molto simili anche nel Vecchio Continente), il 54,4% degli utenti ha dichiarato di preferire l’utilizzo dei nuovi canali come social network e Whatsapp a email e telefono, per comunicare con i brand, e oltre il 45% ritiene che una risposta personalizzata possa aumentare la propria loyalty al brand.
Il customer care online sembra imprescindibile, anche se l’accesso facilitato ai canali di comunicazione costringe le aziende a una mole di risposte che cresce in modo esponenziale. Una ricerca sulla comunicazione online di 50 grandi aziende ha evidenziato l’esistenza del “Social iceberg”: oltre il 93% dei tweet analizzati non erano destinati al pubblico ma erano risposte personali a domande specifiche.
Dopo che il 2.0 ha aperto a tutti la possibilità di farsi leggere pubblicamente, insomma, si ritorna anche a una comunicazione uno a uno, privata, ma resa molto più accessibile di prima.
Ad essere amplificati, però, non sono solo i numeri, ma anche le conseguenze di un lavoro sbagliato.
Non rispondere a un messaggio privato non significa soltanto perdere la fiducia di quel singolo cliente: con ogni probabilità quello stesso cliente insoddisfatto presenterà il proprio reclamo sulla stessa pagina ma in modalità, sapendo di creare un danno maggiore e quindi di ricevere maggiori attenzioni.
Se è vero che aprire la propria bacheca al pubblico significa rendere visibili a tutti gli eventuali reclami, chiuderla non è una soluzione: l’accessibilità degli spazi di espressione porterà i clienti insoddisfatti ad esprimersi su altri territori, non più presidiati dal brand e quindi non più controllabili.
Meglio lasciare che il cliente si lamenti e dimostrare pubblicamente che si sta facendo il proprio meglio per risolvere la situazione. La rete, come un bravo genitore, non ci vuole perfetti: l’importante è che facciamo del nostro meglio.
“Sorridere al cliente” resta ancora la forma di marketing migliore, anche ora che il sorriso non passa dal volto dietro il banco di un negozio ma è diventato un’emoticon.
Fonti: Conversocial; Smart Insights.
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